Zoe era nella sua stanza, la sua amata stanza, compagna inseparabile della sua esistenza e testimone degli eventi che le offriva spontaneamente la vita.
Quella
stanza, di Zoe sapeva tutto, conosceva la sua personalità, le sue
reazioni, i suoi umori, i momenti di tristezza e quelli di felicità, le
crisi e le rabbie, le decisioni e le indecisioni, ma, sopra ogni cosa,
quelle pareti non avrebbero rivelato niente di tutto ciò a nessuno.
Ogni
oggetto della sua stanza aveva un valore e un posto speciale, cosicché,
ogni volta che vi posava lo sguardo le tornava alla mente un ricordo.
Ogni cosa occupava una precisa posizione e in quella posizione doveva rimanere, giusto per non rompere l'incanto.
Se anche Zoe andava indietro con la memoria, non v'era altro posto in cui avesse trascorso così tanto tempo come in camera sua.
Era
lì che si trasformava in principessa, e fra quelle quattro mura
costruiva un castello di mille e più stanze, o, trasportata da un
tappeto volante, si trovava nella magica e misteriosa Arabia, oppure
nella foresta pericolosa e lussureggiante, alla scoperta dell'universo,
nel buio dello spazio.
Proprio lì
teneva i suoi sermoni educativi a scolari negligenti, lì curava i suoi
figli, faceva la spesa e lo shopping, solcava il mare sulla sua barca,
volava in aereo.
Era proprio quella
stanza che le aveva permesso di decidere del suo futuro, perché
all'occasione diventava un "pensatoio", con tanto di cartello attaccato
alla porta.
Che buffo pensava Zoe,
quella stanza era un minutissimo appartamento senza uso di cucina e
senza bagno, da lì non si entrava e non si usciva senza il suo permesso.
Se avesse potuto l'avrebbe rimpicciolita e portata via in ogni dove.
L'avrebbe
messa in campagna, su una dolce collina verde, come ve ne erano intorno
a casa sua, così ogni mattina avrebbe aperto il finestrone all'odore
della terra e degli alberi e sarebbe stata felice di questo. Avrebbe
portato con sé il suo gattone Nur e il suo cavallo Lifar, e la sua
monade sarebbe stata completa, mancava solo il suo Re.
Non
a caso infatti le pareti della sua camera erano rivestite da una carta
da pareti che raffigurava canne di bambù, di cui Zoe amava ascoltare il
canto. Del resto era esposta ad est ed il sole la inondava fin
dall'alba. Adorava il sole che toccava lieve con i suoi raggi il suo
letto, perché Zoe apriva pigramente un occhio e si guardava intorno, e
compiaciuta notava che tutto era come doveva essere, si girava da una
parte, poi dall'altra e faceva un lunghissimo sospiro. Che c'era di
meglio che poltrire nel suo letto all'interno di camera sua? Accanto
aveva i suoi libri preferiti, a portata di mano, bastava allungare un
braccio e arrivava Karen Blixen, Merguerite Yourcenar, i classici di
Luciano, Apuleio, Petronio, Catullo, Ovidio....
Sopra
la sua testa invece, proprio appesi al lampadario, volteggiavano due
aironi di origami, giapponesi, un regalo della sua amica di Tokyo. Anche
loro erano dei simboli: libertà e vita. E poi sul mobile contro il
quale poggiava la testata del letto, c'era lui, irrequieto, ombroso,
selvaggio stallone rampante con la criniera folta e scompigliata, in
equilibrio sui posteriori, come Lifar, e gli anteriori tutti sollevati
in potenza, i muscoli in tensione fino allo spasimo, gli occhi
vivissimi.
Forse tutta quanta quella
camera in cui anche in quel momento si trovava Zoe, era un sogno, una
bella illusione da lei creata, come tante altre, ma di tutte, la più
reale, la più tangibile.
Illusioni perdute forse, che sarebbero state la culla del suo passato.
...una camera parlante cara Silvia, la tua voce narrante è morbida e coinvolgente, complimenti...abbraccio...
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